Franco Pedrina

Roberto Tassi

Il primo elemento specifico dell’opera di Pedrina è la carica di violenza racchiusa nell’immagine, da cui essa risulta agitata e tenuta in una continua possibilità di variazione, come ferma al limite del movimento: tanto che le forme infrante e disperse tendono a ricostituire una costruzione nuova, in una tumultuosa grandezza, e lo spazio diventa vortice. Così questa opera è diretta a espandersi, a invadere tele sempre più grandi, a non conoscere più i propri limiti, che possono di continuo venire spostati; la violenza agisce insomma come una forza naturale, una libido in cerca della sua destinazione.
L’immagine però non ne risulta dispersa, eccedente o aperta: costringendo quella forza, sa trovare il ritmo che la definisce, l’incastro delle forme che si condizionano in modo definitivo, lo spazio che diventa funzione delle forme ed è in tal modo da loro totalmente riempito: la violenza ha agito all’interno delle immagini, senza lacerarle, rimandando magari all’opera successiva e così servendo a incatenarne la sequenza in un discorso unico e mai interrotto.
Qualche anno fa Pedrina, all’inizio del suo lavoro pittorico, mentre affrontava il quadro quasi con la stessa forza, non riusciva poi a dominarla; così questa si spandeva  disordinatamente e l’immagine ne risultava frammentaria, cioè una unione non armonica di nuclei dispersi; anche nei paesaggi, che apparivano come un mosaico mentale di ricordi, di visioni parziali e denunciavano il diaframma di una volontà irrealizzata. Che questo fosse il risultato di una nostalgia o, più, di una ossessione delle immagini native della terra veneta nella vita esiliata di Roma, può essere solo un esterno episodio di biografia, ma forse può anche valere come una ferita più profonda, che in qualche modo incideva sull’opera. Da allora quella energia non solo si è fatta più forte, ma ha trovato un esito di autentico rapporto tra immaginazione e realtà; nelle opere di questa mostra, che sono il lavoro di due anni, non si trovano più zone di energia e zone di inerzia, poiché tutto è inglobato in un'unica struttura, in un solo movimento, in una tenuta che si svolge su tutta la superficie e dentro tutto lo spazio dell’immagine.
Ma per quanto queste nuove opere siano sorrette da quella energia e dalla trama, ovunque ormai necessaria che essa porta a formare, pure ciò che in esse regge il peso dell’unità è il colore; studiando questo nuovo elemento cominciamo a essere più convinti che quell’accenno alla terra veneta non era un cedimento patetico; vediamo cioè che a questo punto può quasi diventare un elemento, o uno strumento critico. Se diciamo allora colore veneto abbiamo il senso della sua naturalezza, della sua espansione, del suo spessore soffice in qualche modo, della sua luminosità non per contrasti ma per diffusioni, per assorbimenti omogenei: tutti elementi qualitativi che, ora, nelle opere di Pedrina sono facilmente riscontrabili e appaiono come il segno di un amore o di una natura ritrovati.
Ma forse ciò che fa apparire ormai del tutto nuove queste opere, e risolve il problema dell’energia frammentata, e rende così sicuro ,emozionato e pertinente il colore è il modo con cui Pedrina ha vinto la lotta con il terzo elemento cioè lo spazio. Nelle opere del ’68, riunite nella mostra di Roma, l’energia era dominata e il colore tornava a fluire dalle sue radici, ma lo spazio restava incerto e lasciava nell’ambiguità l’intera struttura (non nell’ambiguità della poesia, ma nell’ambiguità del non risolto). Il segno nuovo è la conquista dello spazio. Pedrina è ormai riuscito a depositare la sua immagine in una dimensione spaziale che è omogenea in ogni punto dell’opera, in uno spazio tutto pieno. Mentre insomma prima l’opera era il racconto, quasi sillabato, di una emozione, ora è un organismo totale che coinvolge natura, emozione, forza e profondità.
Il modo con cui questo problema è risolto deve qualcosa ai futuristi, o meglio a Boccioni e forse anche al cubismo di Braque: trasformare in forme le forze che attraversano lo spazio, i riflessi che si rimandano gli oggetti, per cui da un oggetto all’altro non deve esserci soluzione di continuità, ma una trama ininterrotta di elementi plastici che realizzano la pienezza spaziale. Questo era il problema di Boccioni, e in parte anche di Braque. E ciò che fa ora Pedrina si riallaccia a quella esperienza, con un ricupero culturale che fonda un rapporto legittimo, efficace e carico di sviluppi, con quella prima avanguardia. Naturalmente si tratta di una suggestione, tutto poi viene risolto secondo i moduli di una nuova personalità artistica. Perché in queste opere lo spazio “pieno” corrisponde a una segno psicologica di fondo della persona di Pedrina, “è” la sua persona; è il segno di una ansiosità angosciata, che furiosamente elimina ogni possibile vuoto. E nel rapporto che si crea tra la forza plastica dello spazio omogeneo e saturo e la emozione luminosa e quasi lirica del colore sta l’originalità di un invenzione poetica.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Bergamini, Milano, gennaio 1971)

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Correggio, Parma, ottobre 1971)

 

 

 


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